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Carlo Pretti - Inquinamento da petroli.pdf | Download Share on Facebook |
Aprendo i lavori della XIVa Rassegna del Mare Puccio Corona, Presidente di Mare Amico, ha messo sul tavolo la provocazione: “Caso Prestige:….e se fosse accaduto in Mediterraneo?”. La Exxon Valdez nel 1989, la Haven nel 1991, la Erika nel 1999, la Prestige nel 2002. Queste sono alcune delle catastrofi ecologiche legate ad incidenti di petroliere che, sversando in mare il loro carico di idrocarburi, hanno inferto un duro colpo all’ecosistema marino, alla pesca ed al turismo. Episodi che inevitabilmente portano l’opinione pubblica a riflettere sui danni provocati dagli sversamenti di petrolio e dei suoi derivati nell’ambiente. Inevitabilmente e, purtroppo, occasionalmente: infatti bisogna precisare che l’apporto di oli combustibili in mare è imputabile soltanto per il 13% ad incidenti marittimi. Uno studio recente ha evidenziato che una importante fonte di apporto è costituita dal lavaggio in mare dei serbatoi delle petroliere (22% dell’apporto totale). Non c’è quindi bisogno del caso eclatante di un naufragio o di una collisione fra super-petroliere per riflettere sui possibili danni dell’inquinamento da idrocarburi.
Le conseguenze di queste catastrofi ambientali vanno ben oltre l’impatto mediatico e rimangono ben impresse nei meccanismi biologici degli organismi anche una volta esaurita la scia dell’emotività.
Lo scenario post-sversamento da idrocarburi varia notevolmente in funzione di diverse variabili: la conformazione geografica dell’area (mare aperto, zona costiera), la composizione dei carburanti e la loro conseguente biodegrabilità, la quantità sversata, la presenza di incendio del materiale sversato, le correnti marine dominanti nell’area interessata.
Come sopra evidenziato, la biodegradabilità degli oli combustibili è fortemente influenzata dalla loro stessa composizione: il tasso di biodegradabilità del carburante fuoriuscito dalla Prestige costituisce un esempio inquietante (figura 1).
La figura 1 è tratta dal documento di analisi del carburante della Prestige: la colonna a sinistra (initial fuel) mostra la composizione del carburante caricato alla raffineria, la colonna di destra (emulsion) mostra l’emulsione di carburante fuoriuscito in mare dopo 15 giorni dall’incidente. La composizione praticamente sovrapponibile dei due carburanti evidenzia il basso grado di biodegradabilità del liquido sversato, probabilmente inferiore al 15 %, con una probabile inefficacia degli interventi di bio-rimediazione.
E’ necessario evidenziare che gli interventi di bio-rimediazione spesso vengono condotti attraverso l’impiego di prodotti disperdenti che abbassano la tensione superficiale dell’acqua. Tali prodotti contengono sostanze appartenenti alla classe degli alchilfenoli che ultimamente sono state studiati per la loro attività estrogeno-simile: essendo simili per conformazione sterica agli estrogeni umani e di altri vertebrati, sono capaci di interferire con i meccanismi del sistema endocrino (endocrine disruptors) ed indurre alterazioni del sistema riproduttivo. Quindi nemmeno l’attività di bio-rimediazione è esente da rischi di ordine tossicologico.
Quando il petrolio viene riversato in mare, il primo impatto è direttamente collegato ai grandi volumi di idrocarburi riversati. Se lo sversamento non è accompagnato da incendio del carburante della nave e/o di quello trasportato, questo tende in gran parte a stratificarsi sulla superficie ed impattare gli organismi che hanno abituale contatto con la parte superficiale del mare: gli uccelli marini, i mammiferi marini, rettili. Dati della British Marine Life Study Society riferiscono di circa 21000 uccelli marini morti a seguito dell’impatto diretto con i combustibili galleggianti fuorisciti dalla motonave “Erika”. Successivamente segue la fase dello spiaggiamento, dipendente dalla natura e dalla forza del moto ondoso. Impattando la costa, il petrolio va ad incidere direttamente sulle attività umane legate al mare: la pesca, l’acquacoltura ed il turismo, senza dimenticare la perdita della qualità di vita che le popolazioni costiere subiscono.
Questi sono gli effetti acuti, immediatamente percepibili, che hanno un grande impatto emotivo sulla comunità, grazie anche ai media (ricordiamo ad esempio l’immagine del cormorano imbrattato di petrolio). Gli effetti cronici, vale a dire le conseguenze più subdole e meno visibili, quelle che si evidenziano nel lungo periodo, passano spesso inosservate. Una importante frazione degli idrocarburi dispersi tende ad affondare, a sedimentare e divenire fonte di un lento ma continuo rilascio di sostanze pericolose per gli organismi che vivono nei fondali e per i loro consumatori. Una piccola sintesi degli effetti a breve-medio termine dell’incidente della Exxon Valdez su due specie ittiche (l’aringa ed il salmone) sono evidenziati nella tabella 1.
Anche se gli effetti elencati sono a medio termine (massimo 2 anni), è facilmente desumibile la pericolosità di queste sostanze liberate nell’ecosistema marino: tra gli organismi più sensibili sono da annoverare il plancton e le forme giovanili (uova, stadi larvali). Si è osservata una maggiore incidenza di patologie anche tra organismi marini di grosse dimensioni, quali delfini e foche, dovuta ad alterazioni delle difese immunitarie. Spesso vengono segnalate alterazioni nei cicli riproduttivi e nella fecondità. Inoltre, i danni alla fascia costiera, zona ad alta biodiversità con funzione di nursery, si ripercuotono sulla qualità ecologica e sulla produttività dell’ambiente marino nella sua totalità.
Nel 2002 una delle più quotate riviste scientifiche internazionali in materia di inquinamento marino, ha pubblicato il risultato degli effetti biologici 10 anni dopo l’incidente della Exxon Valdez su alcune specie ittiche nell’area del Prince William Sound, in Alaska (Jewett et al., 1002). Specie ittiche prelevate nelle aree lambite dalla macchia oleosa hanno mostrato elevati livelli di composti aromatici (idrocarburi) nella bile ed elevati livelli di espressione di proteine (CYP1A) direttamente legate al metabolismo di queste sostanze, in contrapposizione alle stesse specie ittiche prelevate in aree limitrofe ma non lambite a suo tempo dalla macchia oleosa. Ciò significa che, a 10 anni di distanza, gli organismi delle aree colpite dallo sversamento dei combustibili continuano ad essere sotto la continua esposizione di sostanze tossiche provenienti dalla sedimentazione dei derivati del petrolio. Gli organismi, con i corredi enzimatici a loro disposizione, biotrasformano queste sostanze. Biotrasformare significa trasformare, da parte dell’organismo, uno xenobiotico (una sostanza estranea all’organismo, ad esempio un contaminante ambientale) dal composto di partenza in un altro composto. A volte viene trasformato in un composto meno tossico (detossificazione), altre volte viene trasformato invece in un composto molto più tossico del composto di partenza (attivazione). Questa ultima evenienza è alla base dei meccanismi di carcinogenesi come quelli in cui è coinvolto il benzopirene, presente negli idrocarburi dei carburanti. Quello che deve far riflettere è che tali meccanismi sono simili in tutti i vertebrati, dai pesci del Prince William Sound fino alla specie umana.
Le informazioni relative a questo tipo di effetti biologici possono essere attualmente ottenute attraverso l’impiego di moderni descrittori legati al metabolismo degli xenobiotici negli organismi, i cosiddetti “biomarkers”.
Con il termine “biomarker” si intendono quelle variazioni fisiologiche, biochimiche e istologiche che vengono utilizzate come indicatore di esposizione o effetto a sostanze xenobiotiche a livello cellulare o di organismo (Hugget et al., 1992). Negli ultimi anni gli studi sui biomarkers hanno subìto una grande accelerazione in quanto considerati strumenti per valutare gli effetti degli inquinanti sugli ecosistemi. Sebbene queste risposte biochimiche non siano in grado di predire gli effetti dei contaminanti ai livelli più alti dell’organizzazione biologica, hanno però valore come segnale precoce di allarme. Alcuni studi indicano come vi siano rapporti identificabili tra lo stato fisiologico dell’organismo ed i parametri di popolazione (Di Giulio et al., 1995). Il vantaggio dell’impiego dei biomarkers rispetto alla determinazione analitica delle singole sostanze chimiche negli organismi è rappresentato dalla capacità di misurare lo stress che l’organismo subisce al contatto con i singoli contaminanti o miscele di essi. Per questo motivo i biomarkers costituiscono un interessante strumento a supporto delle attività di biomonitaggio e della valutazione del rischio.
La scelta dei potenziali biomarkers da impiegare in una attività di monitoraggio a subordinata all’analisi di diversi fattori quali:
- l’identificazione dell’organismo bioindicatore: ad esempio organismi quali i mitili (molluschi bivalvi) sono condiderati ottime “sentinelle” in quanto sedentari, presenti in differenti habitat acquatici, facili da campionare, con una vita sufficientemente lunga e con la caratteristica di essere organismi filtratori, quindi capaci di trattenere e concentrare nei tessuti contaminanti chimici appartenenti a diverse classi. Questi organismi possono altresì essere trapiantati in aree a differenti livelli di contaminazione
- la correlazione tra contaminante e risposta
- la correlazione tra risposta ed effetto, sia a livello di organismo che di popolazione
- la facilità di misurazione della risposta
- la specificità della risposta; identificare se la risposta del biomarker è indotta da una singola sostanza chimica, da una classe di sostanza chimiche oppure costituisca una risposta generalizzata ad uno stress tossicologico
Nella tabella 1 sono indicati i biomarkers più frequentemente utilizzati a livello internazionale nei programmi di monitoraggio degli ambienti acquatici.
L’impiego dei biomarkers nelle attività di monitoraggio degli ambienti acquatici viene studiato da diversi anni presso il Laboratorio di Zoologia del Dipartimento di Patologia Animale, Profilassi ed Igiene degli Alimenti dell’Università di Pisa, in collaborazione con l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa. In particolare l’attenzione è stata focalizzata sui biomarkers di esposizione a xenobiotici quali idrocarburi poliaromatici, policlorobifenili, diossine (enzimi di fase I dipendenti dal citocromo-P450 [CYP], enzimi di fase II, enzimi legati allo stress ossidativo), composti organofosforati (esterasi) ed endocrine disruptors (dosaggio della vitellogenina plasmatica) [Pretti et al. 2001a; Pretti et al. 2001b; Pretti et al. 2003].
Bibliografia
Di Giulio RT, Benson WH, Sanders BM, Van Held PA. 1995. Biochemical mechanisms: Metabolism, Adaptation, and Toxicity. In: Fundamentals of aquatic toxicology – Effects, Environmental fate, and Risk assessment (Ed. by Rand G.M., Ph.D.), Taylor & Francis Publishers.
Hugget RJ, Kimerle RA, Mehrle PM, Bergman HL. 1992. Biomarkers: Biochemical, Physiological and Histological Markers of Anthropogenic Stress. Boca Raton, FL: Lewis.
ICES. 1999. Report of the Working Group on Biological Effects of Contaminants. ICES, CM 1999/E3.
Jewett SC, Dean TA, Woodin BR, Hoberg MK and Stegeman JJ. 2002. Exposure to hydrocarbons 10 years after the Exxon Valdez oil spill: evidence from cytochrome P4501A expression and biliary FACs in nearshore demersal fishes. Marine Environmental Research, 54: 21-48.
Pretti C, Cognetti-Varriale AM. 2001a. The use of biomarkers in aquatic biomonitoring: the example of esterases. Aquatic Conservation-Marine And Freshwater Ecosystems, 4: 299-304.
Pretti C, Intorre L, Meucci V, Gervasi PG, Vaccaro E, Monni G, Di Bello D, Cognetti-Varriale AM, Soldani G. 2003. Immunochemical evaluation of plasma vitellogenin in the sea bass (Dicentrarchus labrax, L.) following exposure to 17b-oestradiol and 4-nonylphenol.. Journal Of Veterinary Pharmacology And Therapeutics, 26: 264.
Pretti C; Salvetti A; Longo V; Giorgi M; Gervasi PG. 2001b. Effects of beta-naphthoflavone on the cytochrome P450 system, and phase II enzymes in gilthead seabream (Sparus aurata). Comparative Biochemistry And Physiology C-Pharmacology Toxicology & Endocrinology, 130: 133-143.
Figura 1
Composizione del combustibile della “PRESTIGE” (da: http://www.le-cedre.fr/fr/prestige/fichiers/museum.pdf )
Tabella 1
Exxon Valdez (1989): alcuni effetti sulle specie ittiche (adattata da Jewett et al., 2002)
Specie |
Stadio del ciclo biologico |
Anno |
Effetto |
Autori |
Aringa del Pacifico (Clupea pallasi) |
Uova |
1989-1990 |
Bassa % di uova schiuse |
Pearson et al., 1995 |
|
Uova, larve |
1989-1990 |
Ridotta produzione larvale |
Brown et al., 1996 |
|
Uova, larve |
1989 |
Mortalità larvale, ridotta crescita larvale |
McGurk et al., 1996 |
|
Larve |
1989 |
Taglia ridotta,ridotta quantità di cibo ingerito, danno genetico |
Marty et al., 1997 |
|
Larve |
1989 |
Danno genetico |
Hose et al., 1998 |
|
Larve |
1989 |
Malformazioni scheletriche, danno genetico |
Norcross et al., 1996 |
|
Larve |
1989 |
Malformazioni scheletriche, danno genetico |
Hose et al., 1996 |
|
Adulti |
1989-1991 |
Necrosi epatica |
Marty et al., 1999 |
|
Adulti, Larve |
1992 |
Basso successo riproduttivo |
Kocan et al., 1996 |
Pink salmon (Onchorhynchus gorbuscha) |
Adulti |
1989 |
Composti aromatici nella bile |
Krahn et al., 1992 |
|
Giovanili |
1989-1991 |
Induzione CYP 1A, basso tasso di accrescimento |
Willette et al., 1996 |
Tabella 2
Panoramica internazionale relativa ad alcuni biomarkers impiegati in programmi di monitoraggio biologico degli ambienti acquatici (adattata da ICES, 1999)
Carlo Pretti
Dipartimento di Patologia Animale, Profilassi ed Igiene degli Alimenti
Università di Pisa
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