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Carlo Da Pozzo - Turismo, Ambiente e Formazione.pdf | Download Share on Facebook |
Il turismo è sicuramente uno tra i fenomeni umani ed economici che maggiormente caratterizzano i nostri tempi: Lozato Giotart nel 1987 ([1]) sottolineava che il numero dei turisti internazionali si era decuplicato dal 1950 al 1982 passando da 30 a 300 milioni e, aggiungendo i movimenti interni, valutava per quell’anno in quasi un miliardo gli spostamenti turistici complessivi.
I dati della metà degli anni ’90 parlano di oltre 600 milioni di turisti internazionali e di circa due miliardi di turisti complessivi, confermando così la continuità di un ritmo di crescita oltremodo elevato, con il coinvolgimento di percentuali di popolazione ormai notevoli: i turisti internazionali salgono da poco più dell’1% della popolazione mondiale nel 1950 al 6,5% nel 1982 e all’11% nel 1995 ed il flusso globale dal 21 al 36% tra 1982 e 1995.
Ancora più impressionante della crescita del numero di turisti è la crescita del denaro movimentato: le persone andate in vacanza all’estero nel 1982 hanno speso intorno a 35 miliardi di dollari, quasi 120 $ a testa, ma a metà degli anni ’90 hanno speso poco meno di 400 miliardi di dollari, oltre 660 $ a testa, vale a dire assai più del PIL pro capite di quell’anno di diversi Stati ([2]).
Diventa interessante, a questo punto, analizzare la partecipazione delle varie parti di mondo agli spostamenti internazionali dovuti al turismo.
Si nota così immediatamente la concentrazione continentale del fenomeno, che appartiene per il 63% all’Europa (Russia compresa) e per il 20% all’America centrosettentrionale; ma ancor di più spicca la sua concentrazione nei paesi più ricchi, visto che all’insieme USA+Canada tocca il 15% e alla Comunità Europea il 47% (mentre in termini d’abitanti rappresentano rispettivamente poco più del 5 e del 6 % del totale mondiale).
Quest’ultimo aspetto induce a riflettere sul reale significato della crescita dei turisti, dove accanto all’indubbio allargamento del numero di persone si profila anche il fenomeno della pluralità di viaggi pro-capite o, se si preferisce, l’accentuazione della mobilità da parte dei turisti con maggiori disponibilità finanziarie (ciò che si allineerebbe con la tendenza di una spesa che cresce assai più dei tassi d’inflazione).
Ancora più interessante del risvolto economico-sociale è l’aspetto spaziale della suddetta concentrazione: se si pensa, infatti, che in termini di spazio la Comunità Europea rappresenta poco più del 2% delle terre emerse e che il movimento turistico internazionale e nazionale insiste su una parte relativamente piccola dei territori comunitari, si capisce bene come ci si trovi di fronte ad un fenomeno la cui crescita sta rischiando di trasformare gli effetti positivi sull’economia in effetti negativi sull’ambiente.
E’ un rischio che interessa in primo luogo proprio l’ambiente costiero, sia sul versante terrestre sia su quello marino, anche perché la maggior parte dei diversi motivi che attraggono un turista è più che rappresentata nella ristretta fascia litoranea europea: dalle bellezze paesaggistiche alle possibilità balneari, dalle memorie storiche e artistiche alla disponibilità d’infrastrutture e di servizi, dalla organizzazione di manifestazioni e di eventi particolari alla presenza di portualità d’appoggio per crociere e diportisti, ecc.
Per questo bene ha fatto il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che com’è noto raggruppa 39 Stati (tutta l’Europa, oltre a Cipro e Turchia, con l’eccezione di Bielorussia, Jugoslavia, Bosnia, Monaco e Vaticano) ad affrontare il problema con la Raccomandazione n. 9 del 1997.
In essa prendono corpo alcuni principi fondamentali che vanno dalla necessità di affrontare i problemi in una visione a lungo termine all’impostazione economica centrata sullo “sviluppo sostenibile”, dalla riparazione dei danni ambientali pregressi o in atto alla protezione futura dell’ambiente, dal bisogno di equilibrio fra le varie attività antropiche insistenti su spazi identici o vicini alla ricerca di integrazione fra mare, costa e retroterra, dalla rivendicazione del libero accesso alla costa nel rispetto dell’ambiente fino alla limitazione dello sviluppo turistico in funzione della capacità di carico ecologico e sociale dei siti.
Accanto agli strumenti giuridici, insistenti su una legislazione protettiva “tradizionale” della fascia costiera con particolare riferimento alla moltiplicazione delle aree soggette a status di protezione speciale, si individuano strumenti di piano, anche dettagliati, in termini di finalità, di tipologia, di analisi e di valutazioni. Da questi ultimi discendono, poi, una serie di coerenti prescrizioni sia per l’edificato, sia per le infrastrutture e per i trasporti, sia per le attività turistiche; sono esplicitati, inoltre, i controlli per assicurare la compatibilità fra turismo e ambiente in termini qualitativi e quantitativi.
Si individuano, infine, i mezzi con i quali raggiungere gli obiettivi prefissati: si tratta in parte di mezzi già ben noti e realisticamente non ampliabili, come aumenti di tasse specifiche per finanziare impianti di smaltimento e di depurazione o acquisizione di aree da proteggere o incentivi ai progetti in linea con la Raccomandazione stessa, oppure di attestati “di qualità” volti a premiare i risultati ottenuti, come le già esistenti “bandiere blu” per le spiagge e il mare “puliti”; ma in parte si tratta anche di mezzi, forse più nuovi, insistenti sulla formazione di esperti.
Si auspicano, infatti, programmi di formazione e di addestramento su due grandi tematiche, quella della gestione degli ecosistemi e delle risorse naturali delle aree costiere e quella della presa di coscienza dell’“eredità litoranea” da parte degli abitanti; detti programmi dovrebbero, perciò, vedere coinvolte, in primo luogo, diverse categorie di popolazione, dai professionisti delle varie attività turistiche agli amministratori e funzionari degli enti locali ai progettisti e pianificatori fino ai residenti dei litorali.
L’indicazione è di estremo interesse per un duplice ordine di motivi: da un lato testimonia che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa si è reso conto della necessità, ormai inderogabile per la società contemporanea, di formare degli esperti in materia ambientale al punto da far di ciò un dettato esplicito di una Raccomandazione, dall’altro lato le caratteristiche e i destinatari primi di tale formazione collocano la stessa entro quel filone dell’“educazione permanente”, cui tanto spazio viene dato in tutti i documenti del Consiglio d’Europa e della Comunità Europea relativi alla ristrutturazione del sistema educativo generale in funzione delle trasformazioni della società contemporanea, dai bisogni di saperi nuovi fino alla necessità di mobilità del lavoro.
Proprio per questo è un’indicazione non soltanto interessante ma anche condivisibile; nasce tuttavia un problema: chi e come formerà i formatori ? O, a parte i giochi di parole, chi articolerà e svolgerà i programmi della suddetta formazione ?
Sono evidenti la delicatezza e l’importanza dell’argomento: si lasceranno a corsi più o meno improvvisati ed autogestiti da parte di organizzazioni varie, autoqualificantesi “esperte” in virtù di meriti sindacali o politici o “ecologisti” o similari, oppure si provvederà con l’istituzione di convenzioni specifiche con le organizzazioni deputate allo svolgimento di didattica e ricerca, ordinarie e “permanenti”, cioè le Università ?
E’ talmente chiara la differenza fra le due soluzioni da precipitare nella banalità a volervi ulteriormente insistere.
Non mi sembra invece banale sottolineare che proprio l’esigenza dell’educazione prospettata dalla Raccomandazione può essere un’occasione da non perdere nel ripensamento più generale, che stiamo vivendo, dell’assetto universitario.
Che la struttura dell’Università abbia bisogno di riforma è fuori discussione e l’indicatore, invocato dai numerosi –ormai– documenti del MURST e dell’Unione europea, di un progressivo disallineamento tra la formazione universitaria e il mercato del lavoro ne è certamente una valida, pur se non unica, testimonianza; ma rispondere a siffatta esigenza con rielaborazioni di curricula degli studenti e di stato giuridico dei docenti invece che di ripensamento serio dei contenuti è soluzione a dir poco vana.
Si può anche non essere d’accordo –soprattutto da parte di chi studia seriamente le problematiche ambientali– con l’enfasi che i suddetti documenti, italiani e comunitari, hanno posto sulla necessità che l’intera impalcatura dell’istruzione e della ricerca finisca con l’essere subordinata ai principi e alle regole dell’economia; ma quando gli stessi sostenitori di detta linea traducono il proponimento in pratiche contraddittorie con gli assunti teorici nasce legittimo il sospetto che piuttosto di una riforma si voglia perseguire più semplicemente la destrutturazione dell’istituzione (il sogno della deregulation economica totale).
L’Università non risponde più, o risponde male, alle esigenze del mondo contemporaneo: sarebbe strano il contrario, visto che, almeno in Europa, corrisponde ancora sostanzialmente alla strutturazione di matrice humboldtiana del primo Ottocento; ma se si pensa di riformare il tutto partendo, per esempio nel caso italiano, da una suddivisione dello scibile in cinque grandi aree, sanitaria, scientifica e scientifico-tecnologica, umanistica, giuridico-economico-politico-sociale, e ingegneria con architettura, siamo forse di fronte a orizzonti nuovi ?
L’“interdisciplinarità”, con tutti i suoi sinonimi, ricorre nei documenti sulla didattica con una frequenza tale che pare strano non accorgersi che la necessità prima dell’uso di tale parola deriva proprio dall’affermazione di “aree” nuove dello scibile e della formazione. L’“ambiente” o la biologia (genetica compresa), tanto per fare un paio di esempi, non possono ridursi a semplici campi o settori disciplinari specifici, se non al prezzo di produrre specialisti e studi che non riescono poi ad approfondire e ad intervenire efficacemente sull’insieme: Humboldt aveva il diritto di ignorarli, non essendo profeta, ma è lecito farlo al nostro tempo ?
Occorreva volare alto, ridisegnando la struttura universitaria degli anni duemila; si è preferito il volo radente della riduzione a cinque super-contenitori costruiti per accogliere i contenitori tradizionali rappresentati dalle Facoltà, sulla cui funzionalità odierna parla da sola l’esistenza contemporanea di una Facoltà di Scienze, con corsi di studio che vanno dalla biologia all’informatica, dalla chimica alla geologia, dalle scienze ambientali alla matematica, dalle scienze naturali alla fisica e all’astronomia, e di Facoltà come Psicologia o Sociologia e altre, rigorosamente monotematiche e “specialistiche”.
Proprio l’ambiente rappresenta, come si diceva, un ottimo esempio del superamento che i bisogni sociali di professionalità hanno operato rispetto alla struttura e di risposte vecchie della struttura stessa.
Si rifletta. Da un lato troviamo un tema la cui caratteristica precipua è la complessità, l’unione inscindibile di elementi fisici e umani, l’esigenza di un’impostazione veramente olistica; dall’altro lato troviamo una struttura che è andata sempre più specializzando sapere e tecnologia, al punto che anche quando si parla di corsi di studio, ai vari livelli, in scienze dell’ambiente è palese, scorrendone i contenuti, che si tratta di approcci sostanzialmente di parte, almeno dualistici nella separazione/dominanza dell’aspetto fisico o dell’aspetto antropico, quando non prevalgono addirittura ottiche ancor più particolari –chimiche, naturalistiche, ingegneristiche, storico-artistiche, biologiche, agrarie o economiche–, proprio in funzione delle Facoltà referenti.
Una riprova di quanto stenti, per questa formazione culturale pregressa, a decollare il nuovo, e corretto, modo di affrontare la tematica e i problemi dell’ambiente sta nella pluralità “specialistica” o settoriale dei decreti e delle normative che guidano gli interventi di tutela e di uso del territorio.
La stessa Raccomandazione qui citata, per quanto tra le migliori e più avanzate, rientra in questa categoria quando, per esempio, entrando nei dettagli si preoccupa essenzialmente della “difesa” di dune e spiagge, come se la morfologia litoranea si riducesse soltanto a questi aspetti. Esistono, invece, com’è noto, altre morfologie ed altri ambienti costieri, ugualmente soggetti a pressione turistica ed ugualmente doverosi di protezione, dalle coste alte alle foci fluviali, dalle lagune ai laghi e agli stagni, per non parlare di falcature, frastagliature e microinsularità.
Anche se, per ciascuno di questi aspetti, si trovasse una “Raccomandazione” specifica, sarebbe evidente la difficoltà, se non l’impossibilità, di arrivare poi ad una guida complessiva omogenea; è un fenomeno che in Italia si sperimenta quasi quotidianamente: la massa di leggi e di tutele è veramente imponente; credo che non esista in generale –e nella costa sicuramente– metro quadro di spazio che non sia soggetto a più di una normativa; ma proprio per questo alla fine domina l’ingovernabilità. Se, infatti, l’ambiente è un sistema, la sua logica ed il suo funzionamento –e quindi le possibilità di intervenirvi– non si ottengono per semplice sommatoria dei singoli elementi e lo stesso discorso vale per il territorio.
Si aggiunga a tutto ciò l’ingenuità o l’ascientificità di alcuni dettati, giustificabili forse alcuni decenni fa nel primo momento della presa di coscienza di massa dell’ecologismo ma oggi quasi ridicole, e si completerà il quadro non soltanto delle cause d’inefficacia dei provvedimenti, ma soprattutto della necessità di una seria formazione educativa al proposito.
Valgano, come esempio per tutti, i concetti di “ripristino” o di “restauro ambientale” e di “rinaturalizzazione”, di cui abbondano i documenti nazionali ed internazionali e che, tradotti nella pratica, non significano riparazione di danni o guasti o inquinamenti in atto, ma, più spesso, ricostruzioni artificiali di situazioni ambientali pregresse scelte a piacere (classico è il caso dei riallagamenti di zone bonificate da secoli o dell’escavazione e della reimmisione di acqua in zone umide in via di interramento), quasi che l’ambiente non avesse come primo principio proprio l’evoluzione e si potesse individuare di ogni luogo una “situazione primigenia” e l’uomo con i suoi interventi non fosse parte della naturalità locale, accoppiando insieme antiscientificità e antistoricità.
Sono equivoci di fondo che persistono anche nelle recentissime Linee Guida per un Piano Nazionale per le Zone Umide in Italia, dove finalmente si cerca di organizzare gli interventi conseguenti alla Convenzione di Ramsar. Al di là di piccoli dettagli linguistici come l’aggettivazione “ecologico-ambientale”, francamente ridondante soprattutto quando seguita da “relativamente alle componenti abiotica e biotica (flora, vegetazione, fauna, paesaggio vegetale, antropizzazione), nei loro aspetti strutturali e funzionali” [in: Azione 1.1.1.; ma l’abiotico dov’è e la flora è proprio così diversa dalla vegetazione?], o nei “sistemi di corsi d’acqua di grandi dimensioni” [Ib.] un’esemplificazione che arriva a citare il Sele, comprendendo nell’etc. almeno una trentina di fiumi assai più lunghi (se il ferimento è ai bacini, nell’etc. ce ne sono invece una ventina più vasti di quello del citato Brenta), in queste Linee è di estremo interesse e di grande rilevanza proprio l’interpretazione data ai concetti di “formazione” e di “educazione”.
Si tratta di due obiettivi specifici: il 3.3. “Formazione e qualificazione di personale per la gestione delle Zone Umide” e il 3.5. “Interventi di educazione ambientale”. Il 3.3. si articola in due azioni, la prima delle quali prevede di arrivare a definire modalità e tipologie della formazione mentre la seconda individua già la priorità degli interventi (formazione di base per sorveglianti e manager, per eventuali “guide”, per la gestione delle risorse, per l’informazione al personale di Enti Locali e alle popolazioni); il 3.5. è ugualmente articolato in due azioni, la prima di “promozione di attività di educazione ambientale”, consistente in visite guidate, campi-scuola ed attività teorico-pratiche, e la seconda di realizzazione di “supporti didattico-educativi in dotazione alle Aree Protette”, come centri visitatori, musei naturalistici, percorsi naturalistici.
L’obiettivo 3.5., specificato in quei termini, ha certamente una qualche valenza educativa generale, tuttavia mi pare finalizzato a trovare consistenza (se non mercato) per qualsiasi “area protetta” piuttosto che a sviluppare l’“educazione ambientale” perché lascia in ombra l’istituzionalizzazione non occasionale del rapporto fra la scuola e l’area protetta; ma è l’obiettivo 3.3. il vero nodo cruciale e la sua prima azione è l’occasione da non perdere per un salto di qualità dell’azione educativa e, soprattutto, formativa.
Altri Paesi europei, in primo luogo la Francia, hanno da tempo organizzato strutture e corsi post-laurea in questa direzione; il fermento di rinnovamento dell’organizzazione italiana degli studi universitari, dai corsi di laurea fino alla Scuola di formazione degli insegnanti, offre uno scenario propizio ad un’azione seria e razionale. In questo contesto, sarebbe interessante per tutti conoscere quali sono le iniziative che il Ministero dell’Ambiente intende promuovere e se a questo fine ha intenzione di avviare, oppure ha già avviato, gli opportuni contatti con il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica.
Prof. Carlo Da Pozzo
[1] Lozato-Giotart J.P., Géographie du tourisme, Masson, Paris, 1987.
[2] Secondo i calcoli ONU denunciavano un PIL inferiore: Myanmar, Tanzania, Malawi, São Tomé, Burundi, Mozambico, Mali, Etiopia e Zaire (appena 300 $).
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