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Ferdinando Boero - La gestione degli ecosistemi marini costieri implicazioni scientifico-filosofiche IT.pdf | Download Share on Facebook |
Le popolazioni umane, nel corso della storia, hanno sviluppato culture che tendevano a interagire fortemente con l’acqua oppure che, per quanto possibile, la rifuggivano. Popoli fieri e guerrieri costruivano porti e armavano flotte, con cui trafficavano con altri paesi e, se necessario, combattevano per contendersi i mercati migliori. Popoli meno inclini alla competizione con altri popoli, d’altra parte, si rifugiavano sulle montagne, acquisendo forte resistenza a condizioni ambientali avverse (i proverbiali “montanari”). Per i primi il mare è fonte di ricchezza e di cultura, per i secondi rappresenta il mezzo con cui arrivano i predoni. Oggi queste distinzioni non hanno più ragione di essere: non ci sono più i pirati che fanno razzie e dal mare non riceviamo più aggressioni ma, piuttosto, richieste di aiuto da parte di fratelli meno fortunati di noi. La popolazione del globo tende sempre più a spostarsi verso il mare, anche se le due culture hanno lasciato “cicatrici” che tardano a scomparire. Chi ha la cultura del mare vuole stare al mare tutto l’anno, vuole un contatto continuo e ci va ogni volta che può. Le case di vacanza al mare, ad esempio, hanno anche l’impianto di riscaldamento, perché il mare è bello d’estate e d’inverno. Chi usa il mare non nelle vacanze (inclusi i fine settimana), ma nelle ferie, vi trascorre un breve periodo estivo, per non tornarvi più fino alle ferie successive. Le case per le vacanze non hanno il riscaldamento, e il turismo è fortemente stagionalizzato. Le coste italiane si sono ricoperte di villaggi fantasma, animati da attività frenetiche per poche settimane all’anno e completamente deserti per tutto il resto del tempo.
Queste predisposizioni culturali si estrinsecano anche nel modo in cui viene gestito il territorio che insiste sul mare: la fascia costiera. Gestire significa “prendersi cura”, e la gestione di una cosa amata non è paragonabile a quella di una cosa adoperata. Viaggiando lungo le coste del nostro paese credo sia possibile a tutti vedere tratti di costa “amata” e tratti di costa “usata”. Non è che le coste amate non vengano anche usate, ma l’uso avviene sempre con molto rispetto. Con amore, appunto. Ma oggi l’amore non basta più. Il numero di utilizzatori delle coste è cresciuto a dismisura, la ricchezza portata dal turismo marino ha potenziali talmente grandi da far affievolire anche l’amore più forte. A questo punto occorre regolamentare il rapporto. Anche chi si ama stipula contratti, e il matrimonio è il contratto d’amore per eccellenza. Il buon senso comune, quello degli “anziani”, di solito funziona quando le condizioni cui deve essere applicato sono simili a quelle che hanno portato al suo sviluppo. Ma se le condizioni sono diverse, allora il buon senso non basta. Occorre sviluppare conoscenze sulla base delle quali elaborare modelli e tentare di effettuare previsioni. E qui le cose si complicano. L’uomo studia scientificamente il mare da qualche secolo e ha capito, soprattutto con i recenti sviluppi tecnologici, come esso funziona su scala globale. L’oceanografia, ad esempio, ha tracciato il sistema delle correnti marine ed è in grado di seguire i movimenti delle grandi masse oceaniche. Le navi oceanografiche solcano i mari ed estraggono milioni di informazioni che vengono elaborate già a bordo, fornendo rappresentazioni in tempo reale di una determinata situazione ambientale. Le navi oceanografiche, però, di solito si allontanano dalla costa, lavorano sempre al largo. I modelli sono sempre di grande scala. Quante volte, guardando un porto che tende ad insabbiarsi, un ripascimento di litorale portato via dalla prima mareggiata, una serie di frangiflutti che non svolge appieno il suo ruolo, ci è venuto da chiedere: ma questi non lo sapevano che sarebbe andata a finire così? Come mai non hanno saputo prevedere che le loro azioni sarebbero state inefficaci o che, addirittura, avrebbero ottenuto un effetto contrario a quello atteso? A volte la risposta è una sola: incompetenza. Altre volte è: incompleta conoscenza del sistema a causa della sua insolubile complessità. Mentre le acque del largo si comportano in modo ampio e regolare, quelle sottocosta sono influenzate dalle asperità del fondo e della linea del litorale. Controcorrenti costiere, piccoli sbarramenti, fiumiciattoli inesistenti che si scatenano una volta ogni dieci anni, e mille altre sorgenti di microdisturbo fanno aumentare a dismisura il numero di variabili che occorrerebbe inserire nel modello. Tanto da rendere impossibile la formazione del modello. E’ storia vecchia. I sistemi semplici sono soggetti a leggi semplici che portano all’effettuazione di previsioni attendibili, mentre i sistemi complessi sono regolati da talmente tante variabili da rendere la prevedibilità un esercizio puramente statistico. Ma basta un solo evento al di fuori della norma per cancellare una spiaggia, distruggere un porto, portar via un paese. Tali eventi avvengono periodicamente e lasciano segni profondi, nonostante la brevità con cui hanno luogo. Dato che è impossibile prevedere l’imprevedibile, o è comunque più difficile, paradossalmente conosciamo molto di più del mare lontano da noi che di quello vicino a noi. Al gestore, però, interessa sapere quel che avverrà sottocosta e vuol sapere quale sarà l’effetto delle sue azioni all’interno del sistema prettamente costiero. E’ vero che le acque del largo influenzano, con la loro circolazione, anche le dinamiche costiere, ma è anche vero che la conoscenza del loro comportamento non basta a comprendere ciò che avviene vicino alla riva.
Se questa situazione vale per chi studia gli aspetti chimico-fisici del mare, anche chi studia la bio-ecologia marina non è esente da questo peccato. Sono molto sviluppati, soprattutto al di fuori del Mediterraneo, gli studi sulle comunità intertidali (facili da raggiungere e manipolare a bassa marea) e, questa volta anche in Mediterraneo, su quelle subtidali del largo, sia pelagiche che bentoniche (esplorabili con le navi oceanografiche), mentre poco si sa e si fa sulle comunità subtidali costiere, soprattutto di substrato duro.
Prendiamo l’esempio delle Aree Marine Protette. Queste sono invariabilmente istituite in zone ad alto pregio naturalistico e, praticamente di regola, tali zone coincidono con le falesie rocciose o, comunque, con substrati duri. Nessuno si sogna di istituire un’Area Marina Protetta su un fondale fangoso (da dove peraltro si può ricavare una grande quantità di pescato) o su una prateria di posidonia (insostituibile, ma diffusissimo, protettore del litorale, produttore di ossigeno, e asilo per innumerevoli specie anche di interesse commerciale). Tali ambienti sono molto diffusi e non “emergono” dalla normalità dei paesaggi sottomarini. La loro utilizzazione va regolamentata, ma non al punto da istituirvi un’Area Marina Protetta. Le emergenze naturalistiche meritevoli di massima protezione sono caratterizzate da un altro attributo, molto impalpabile: la bellezza. Il primo parco naturale moderno fu istituito dietro pressione di un famoso presidente degli Stati Uniti che rimase colpito dalla bellezza del sito. Anche i nostri parchi terrestri sono situati in posti “belli”. A volte la loro importanza ecologica nel determinare il funzionamento e la buona salute dell’ambiente in generale è bassa, ma la bellezza ha un suo valore, soprattutto per la gente comune e, quindi, per la maggior parte della popolazione. Paradossalmente, gli studi sui substrati duri subtidali sono molto rari e frammentari e spesso si tende a gestire questi ambienti partendo da conoscenze su ambienti rocciosi intertidali o di substrato molle.
La regola (acque del largo, substrati molli) si scontra con l’eccezione (acque costiere, comunità di substrati duri subtidali) e non serve molto ad una corretta gestione.
Questa lunga premessa tende a spiegare i motivi storici e tecnici per cui gli ambienti costieri sono stati poco studiati, nonostante l’importanza strategica che essi hanno per il nostro benessere. Se la gestione deve passare attraverso la conoscenza, allora moltissimo resta da fare. E nessuno può essere così stolto da pensare di poter gestire ciò che non si conosce e che la gestione non è tanto migliore quanto migliore è la conoscenza.
Lo sviluppo di tali conoscenze non avviene per caso. E’ il risultato di strategie scientifiche decise dal potere politico. Se alla comunità serve quel tipo di sapere, la comunità finanzia quel tipo di sapere. Per un po’ la comunità scientifica “fingerà” di studiare il problema, continuando a curare gli interessi preferiti; spetterà allora ai committenti spingere in modo più perentorio gli sforzi nella direzione ritenuta necessaria.
La storia
Purtroppo la fascia costiera non ha un comportamento di facile predizione. La storia ha una grande importanza e, come previsto dalla teoria del caos, piccoli eventi apparentemente insignificanti possono, a medio e lungo termine, avere ripercussioni impensabili. Il famoso battito d’ali di farfalla a Bombay che, dopo un mese, causa un uragano a New York. Anche la storia umana è governata da eventi che non si possono prevedere. Una disavventura galante di un uomo potente (il Presidente degli Stati Uniti, ad esempio) può far crollare la borsa e, se il Presidente viene rimosso, può addirittura cambiare il corso della storia. E’ per questo motivo che gli storici non hanno sviluppato il modello matematico della storia, con un algoritmo che prevede il futuro. Le chiromanti prevedono il futuro, gli storici descrivono il passato, cercano le cause di quel che è avvenuto e, se possibile, identificano lasse regolarità con le quali effettuare previsioni “deboli”. Le uniche possibili. Gli economisti hanno cercato di prevedere la storia con modelli matematici più o meno precisi. Hanno suggerito “piani” che, con pervicace regolarità, si sono rivelati fallaci. Il più delle volte per contingenze imprevedibili e di enorme impatto. Tutto sarebbe andato per il meglio se il prezzo del petrolio non avesse subito un’impennata. Grazie! Il modello avrebbe funzionato perfettamente se le condizioni che hanno dominato il passato si fossero ripetute anche nel futuro. Ma la vita vera non è così. Le cose cambiano continuamente, sia nella storia umana che in quella naturale.
A questo punto l’uomo della strada allarga le braccia e dice: se non si possono effettuare previsioni, a che ci serve tutta questa scienza? Ci serve a capire, ci serve a spiegare e ci serve ad effettuare previsioni “deboli”. Proprio come avviene in meteorologia, proprio come avviene con la storia. E nessuno si sogna di dire che la meteorologia e la storia siano inutili. Anche l’economia si trova in questa situazione.
Gli ecologi e gli economisti, in questo contesto, si trovano in una bruttissima situazione. I non ecologi e i non economisti vogliono da loro tutta una serie di previsioni. Che succede se facciamo questo? Dimmi quel che dobbiamo fare. E ci si aspetta che questi “esperti” forniscano una formula magica. I politici, ormai, sanno che se chiamano dieci esperti ottengono dieci risposte diverse. Il bello è che, in momenti diversi, tutti avranno ragione, il brutto è che nessuno può sapere quando tali momenti si verificheranno. In queste condizioni possono avere il sopravvento coloro i quali effettuano previsioni non basate sulla conoscenza. Tanto il risultato è lo stesso. In campo ambientale questo è più frequente di quanto non sia in campo economico. Tutti, ormai, sono esperti di ambiente ed effettuano previsioni, di solito catastrofiche. A prevedere il peggio non si possono avere che sorprese positive ma, con questa attitudine, anche gli ecologisti tendono a perdere credibilità. Cousteau, trent’anni fa, previde che entro vent’anni il Mediterraneo sarebbe morto. Al vederlo arzillo nonostante la macabra previsione, il proverbiale “uomo comune” non si preoccupa più delle condizioni del Mediterraneo. E Cousteau ha ottenuto l’effetto opposto a quello che voleva ottenere, mitridatizzando la sensibilità collettiva nei confronti dei problemi dell’ambiente.
La fascia costiera
Il quadro delineato sin qui ben si applica alla gestione della fascia costiera. Si tratta di un sistema fortemente influenzato da eventi che hanno luogo sia sulla terra ferma che in mare aperto e che, data la sua eterogeneità, presenta situazioni diversissime anche su scale geografiche molto piccole. La conoscenza non può che procedere con la scala del “palmo a palmo”, ricostruendo la struttura nel modo più dettagliato possibile. Una cartografia dei fondali con la distribuzione delle biocenosi bentoniche è un prerequisito alla gestione della fascia costiera. A questo deve far seguito un monitoraggio delle condizioni chimico-fisiche e delle biocenosi nel loro complesso. La presenza di insediamenti a forte impatto ambientale dovrà necessariamente essere controllata con speciali tecniche, prima fra tutte quella dei biomarcatori. Mentre le condizioni medie dell’ambiente potrebbero essere efficacemente tenute sotto controllo valutando le condizioni del benthos sessile di substrato duro. Tale componente delle comunità marine ha la caratteristica di essere di solito a lunga vita, stanziale e facilmente osservabile in modo non distruttivo da chi sia in grado di effettuare l’immersione subacquea. Le riserve marine, in questo contesto, potranno essere utilizzate come ecosensori della qualità media dell’ambiente, affiancando l’utilizzazione a fini conoscitivi con la protezione a fini conservativi e di fruizione non distruttiva (ecoturismo).
La gestione
Il problema di individuare quale sia il modo migliore di utilizzare la fascia costiera non necessariamente prevede una sola soluzione. Nei tempi passati si pensò che la fascia costiera fosse un buon sito per la creazione di industrie pesanti. Genova, Napoli e Taranto videro snaturare buona parte del loro litorale per l’impianto di mega industrie di produzione dell’acciaio che, oggi, si stanno smantellando o, comunque, fortemente ridimensionando. Allora sembrava la soluzione più giusta alla necessità di sviluppo. La costa romagnola ha sviluppato un turismo di massa a buon mercato, estraendo risorse ingenti da una fascia costiera caratterizzata da un mare non particolarmente attraente. La Costa Smeralda, ma anche tutta la Sardegna nel suo complesso, ha fatto la scelta opposta, sviluppando un turismo elitario e offrendo un mare tra i più belli del mondo. La Liguria si pone a metà tra questi modelli. Dall’esclusivissimo Portofino e dalle magiche Cinque Terre, alle spiagge con lunghe file di ombrelloni di Alassio e Cavi di Lavagna. Queste modalità di utilizzazione della fascia costiera sono riscontrabili lungo tutte le nostre coste, dove si possono trovare molti altri casi anche più estremi. Primo fra tutti l’abusivismo edilizio costiero, ad alto impatto ambientale e a basso ritorno economico: il paradigma dell’utilizzazione dissennata del territorio.
Chi studia l’ambiente marino sa fornire istruzioni più o meno sagge per l’uso della risorsa mare. Tali istruzioni, però, si scontrano invariabilmente con le esigenze delle popolazioni locali. E alla fine diventa più importante lo studio socio-economico di quello ambientale. La distinzione, comunque, è arbitraria. L’uomo è un elemento del paesaggio, è una specie che, come le altre, ha le sue esigenze e il suo impatto. Economia ed ecologia non hanno ragione di esistere in quanto discipline separate. L’una influenza l’altra in modo talmente forte che è velleitario perseguire una disciplina ignorando i fondamenti dell’altra.
Prospettive
La percezione del cambiamento globale, della tropicalizzazione del Mediterraneo, dell’ingresso di specie aliene, sta mutando il modo di vedere l’ambiente. Gli steccati tra discipline come, appunto, economia ed ecologia stanno cadendo e ci troviamo di fronte ad una sfida molto ardita, tesa a creare nuove figure professionali, in grado di rispondere un po’ meglio alle domande dei rappresentanti popolari. Anche questi ultimi, comunque, non potranno più restare al di sopra di tutto. Essi, con le loro scelte, sono gli arbitri delle diatribe tra vari specialisti. Le loro decisioni su chi abbia torto o ragione, con le conseguenti azioni gestionali, devono essere basate su un certo grado di competenza specifica, altrimenti crederanno a chi dice loro quel che vogliono sentirsi dire, ignorando magari quel che potrebbe irritarli. E dopo l’ecologia e l’economia, ecco allora entrare in campo la politica. La gestione, infatti, è un atto politico ed è il politico quello che, alla fine, prende le decisioni. La faccenda è molto complicata e richiede, anche in campo politico, un nuovo modo di operare. Il politico, di solito, punta ad essere rieletto. A lui interessano i risultati a termine breve o medio-breve. In modo che gli elettori possano premiarlo per la sua efficienza. Non gli interessa moltissimo far fare sacrifici oggi per avere vantaggi dopodomani, quando non sarà stato rieletto a causa dei sacrifici imposti. E’ forse questa la ragione di una mancanza di programmazione ambientale a lungo termine. L’ambiente altro non è che un sistema che dà problemi da risolvere immediatamente. Se la cura eccede i termini elettorali, e non può essere spesa in questo termine, la cura non viene fatta.
Tutti, quindi, dobbiamo cambiare atteggiamento, rinunciando alle nostre futili velleità e affrontando con un po’ più di umiltà e di apertura mentale il problema forse più complesso che si possa immaginare. Un problema, la gestione della fascia costiera, che riguarda un sistema dove l’ambiente marino si incontra con quello terrestre (riassumendo la complessità di entrambi) e dove l’uomo svolge la sua azione più incisiva. Creare le nuove filosofie per lo sviluppo della gestione della fascia costiera non rappresenta che una delle tante sfide di questo nuovo millennio. Ma è forse quella che non ci possiamo permettere di non raccogliere.
Conclusione
Non esiste una formula magica che spieghi tutto. Se esiste, è talmente generica che non spiega nulla. I popoli più sviluppati sono certamente egoisti, consumano più di quel che producono e prosperano comunque, drenando risorse da chi consuma meno di quel che il suo territorio produce. Non a caso molti paesi poveri sono molto ricchi di materie prime! Consumare più di quel che si produce appare, a lungo termine, impossibile per motivi termodinamici (le leggi generali, appunto). Ma, riportando le cose su scala ecologico-economica, le scale di influenza superano le barriere politiche. Gli Stati Uniti e l’Europa sono molto più grandi dei loro confini politici, in termini di impatto ambientale e di drenaggio di risorse. Gestire questa complessità, come già ricordato, deve necessariamente portare ad una fusione di approcci, deve portare all’individuazione della continuità concettuale che lega tra loro tutte le cose. Lo sviluppo scientifico, nel secolo scorso, ha visto il trionfo del riduzionismo. Un problema grande, apparentemente intrattabile, viene ridotto in tanti problemi piccoli e trattabili. L’ecologia basa la sua impalcatura filosofica sul paradigma delle proprietà emergenti: il tutto ha proprietà che superano la somma delle parti. Però, poi, chi studia il plancton non conosce il benthos, e gli oceanografi fisici non parlano molto con gli ecologi marini. Il tempo delle risposte precise non è ancora arrivato e forse è proprio impossibile fornire risposte precise a domande complesse. La teoria del “rischio” è allora da applicare anche alla gestione dell’ambiente. La raccolta dei dati e delle informazioni deve ora essere seguita da un tentativo di sintesi teorica che metta insieme quel che ora è separato. Certamente, dobbiamo confrontarci con le contingenze del presente e rispondere in modo più accurato possibile alle domande dei gestori, ma chi decide le direzioni da imporre alla ricerca (con la politica dei finanziamenti) deve capire che non è possibile proseguire a vista, risolvendo i microproblemi man mano che si presentano, senza pensare in grande.
Di solito l’obiezione che si muove a queste affermazioni è che non ci sono soldi per fare di più. La mia risposta è: non è vero! I soldi ci sono, bisogna solo individuare le priorità per spenderli. I soldi che si impiegano per arrivare su Marte e vedere se ci sono davvero i marziani rispondono a necessità molto lontane dall’essere impellenti. I finanziamenti stanziati per mantenere il telescopio orbitante Hubble superano di gran lunga quelli stanziati in tutto il mondo per lo studio coordinato della biodiversità. La scomparsa di biodiversità è senz’altro un problema più impellente della scoperta di un altro pianeta al di fuori del sistema solare. Il mettere a punto un sistema di missili che ci difenda da una possibile catastrofe causata dalla caduta di un asteroide è di gran lunga meno importante di fare anche il solo inventario della biodiversità del pianeta! Andiamo a cercare la vita dove non c’è e non la studiamo dove c’è! Nel frattempo distruggiamo quel che ancora non conosciamo.
Come giudicheranno queste scelte i nostri nipoti?
Ferdinando Boero
Università di Lecce
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