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Sebastiano Venneri - Fronte del porto ITA.pdf | Download Share on Facebook |
In epoca antica, i porti marittimi rappresentavano una risorsa importante per i territori che li ospitavano, essendo il crocevia dei percorsi dei mercanti, depositari di beni e conoscenze di difficile reperibilità in un mondo tutt’altro che globalizzato.
Con l’avvento della società contemporanea questo ruolo è andato progressivamente sbiadendo, ma i porti per molte località del litorale italiano continuano a costituire una ricchezza molto importante. Non solo dal punto di vista commerciale, ma anche, e soprattutto, come volano dell’industria che ruota attorno al turismo.
Dietro a questo scenario idilliaco, però, spesso si cela una realtà ben diversa. Una realtà in cui i porti si trasformano nell’ennesima occasione per speculazioni a molti zeri, ai danni delle casse pubbliche, e in una vera e propria aggressione ai danni del patrimonio naturale.
Così in alcuni casi decine di porti e porticcioli spuntano lungo la costa a poche decine di chilometri l’uno dall’altro come funghi dopo un temporale, in barba alla logica e a qualsiasi seria valutazione di impatto ambientale. In altri casi, invece, strutture portuali progettate per rispondere a reali o presunte esigenze finiscono impantanate nella palude della burocrazia e dei ritardi incomprensibili, che trasformano vaste porzioni di territorio in un cantiere in pianta stabile. In altri casi ancora, porti realizzati facendo ricorso a stanziamenti dell’erario finiscono inspiegabilmente nelle mani di privati che li gestiscono a proprio piacimento.
Il risultato è quasi sempre lo stesso: fiumi di denaro pubblico gettati al vento e nelle tasche degli speculatori, mentre il mare e i litorali agonizzano, insidiati sempre di più dal cemento. E’ quanto avvenuto, per esempio, in Sardegna, dove, in assenza di un adeguato controllo, gli interessi di progettisti e imprese costruttrici hanno spinto verso la realizzazione di infrastrutture sovradimensionate, spesso inadatte al loro ruolo.
Se da un lato il diporto nautico va considerato come una componente significativa dell’economia turistica delle aree costiere, dall’altro è evidente che le proposte di piani per la portualità turistica presentati fino ad oggi sono condizionati da alcune presunte esigenze che tendono ad appesantire più del necessario il livello delle infrastrutture presenti lungo il litorale. E’ opinione comune, infatti, che i porti turistici debbano avere una grande dimensione, pari ad almeno 700-800 posti barca, per ragioni di economia di gestione.
Accettare indiscriminatamente questo principio significa ignorare la netta distinzione di funzione tra i porti stanziali, destinati a servire da basi logistiche permanenti, ed i porti di scalo, da utilizzare su base stagionale come semplici punti di tappa durante le crociere estive.
I porti del secondo tipo non richiedono, in realtà, né le dimensioni, né l’insieme di servizi che devono essere presenti nei porti stanziali.
Deve essere sfatata anche la presunta esigenza di attrezzare l’intero sviluppo costiero del nostro paese con una catena ininterrotta di porti da disporre a distanze di 20-30 miglia, vale a dire ad una normale giornata di navigazione l’uno dall’altro.
Già oggi, infatti, è molto elevato il numero delle imbarcazioni che dai porti della Liguria, della Toscana e del Lazio migrano per le vacanze verso la Corsica e la Sardegna, coprendo tratte in mare aperto anche nell’ordine del centinaio di miglia, così come è considerato normale nell’Adriatico un trasferimento verso le coste della Dalmazia, di lunghezza poco inferiore.
E’ essenziale, perciò, che dagli sforzi volti ad avviare un processo di sviluppo della nautica nel nostro paese non emerga un approccio simile a quello proposto in passato con il progetto Bonifica per il Ministero della Marina Mercantile (“Sistema di Approdi nel Mezzogiorno”), che accettava in modo acritico i due postulati appena messi in discussione, vale a dire quello della dimensione dei porti, considerati tutti obbligatoriamente di grandi dimensioni, e quello delle distanze tra loro. Un simile modo di procedere si tradurrebbe in un’ulteriore cementificazione della fascia costiera o in uno spreco di risorse pubbliche.
Appena ci si allontana dai principali bacini di utenza, infatti, la possibilità di realizzare dei porti turistici utilizzando esclusivamente capitali privati sussiste solo quando alla realizzazione di porti vengono abbinate grosse operazioni immobiliari.
Un esempio chiaro in questo senso è rappresentato da quanto accaduto nelle isole Baleari, ed in particolare a Mallorca, dove i numerosissimi porti turistici sono, in realtà, soltanto i “garage da barche” dei complessi turistici realizzati a filo di costa.
Anche se lo sviluppo della nautica può avere delle ripercussioni positive dal punto di vista economico, c’è dunque il rischio concreto che dietro l’obiettivo ufficiale di tale sviluppo possano nascondersi interessi non dichiarati per operazioni immobiliari sul litorale o per la costruzione di porti inutili a carico di tutta la collettività.
Innanzitutto è necessario fare chiarezza sui numeri: si è spesso parlato di 800mila barche, ma le dimensioni reali della flotta da diporto italiana si aggirano tra le 80-90mila unità.
Sebastiano Venneri
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