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Massimo Coccia  - Il Mediterraneo e la pesca: c’è bisogno di un registro comune

Venticinque Paesi, ma nel 2007 quando si apriranno le porte della Ue anche per la  Romania e la Bulgaria saliranno a ventisette, e venticinque modi diversi di stare in Europa. Le tradizioni e la cultura locale di una nazione sono dei caratteri distintivi che non vanno cancellati. Se questo è vero in assoluto, lo è ancora di più, quando si parla di pesca. La pesca, principalmente artigianale che si fa nel Mediterraneo (dove una flotta numerosa, ma di piccole dimensioni, svolge per l’80% dell’ attività di pesca a livello artigianale), e la pesca oceanica, con imbarcazioni decisamente di grandi dimensioni, che viene praticata nel nord Europa, sono due modi di intendere l’attività professionale di pesca. Un’attività che richiede un registro comune di coordinamento che sia in grado, però, di cogliere le singole peculiarità. Regole comuni e condivise, insomma, che sappiano adattarsi ad ogni esigenza. Del resto di attenzioni e di cure il settore ittico ha sempre bisogno. Resta da capire chi può prestarle e, soprattutto, come. Sono mutate le condizioni da quando, nel 2000, fu concepita a Bruxelles la prima stesura del nuovo Regolamento Mediterraneo. Da allora il Cgpm (Commissione Generale per la Pesca nel Mediterraneo) ha assunto le sue piene funzioni operative ed è oggi, a tutti gli effetti, nell’ottica di un futuro e maggiore coinvolgimento dei produttori, la sede multilaterale in cui tutti gli Stati costieri del bacino, sia a livello scientifico che politico-diplomatico, concordano misure vincolanti per i Paesi aderenti. Un luogo deputato per risolvere il problema dell’armonizzazione delle norme tra tutte le flotte operanti in Mediterraneo. Un terreno, quello dell’armonizzazione, su cui l’azione della Commissione Europea è spesso poco incisiva. Abbiamo appoggiato la creazione di un nuovo Cgpm proprio per consentire  in Europa un cambiamento di rotta: non è più possibile continuare a tenere conto di un mercato comune che non esiste più, imponendo regole solo ad alcuni dei ventidue Paesi che si affacciano nel bacino. E di certo le norme previste nel nuovo Regolamento del Mediterraneo, almeno nella versione finora presentata, sono ben lontane da consentire il raggiungimento di questo obiettivo. Un obiettivo importante non solo perché consente a tutti gli operatori di giocare la “partita” con le stesse carte, ma perché facilita la creazione di un percorso di filiera, indispensabile per valorizzare le produzioni locali. Sono quest’ultime, infatti, la vera grande forza delle produzioni mediterranee che contrappongono all’abbondanza, la qualità. 

Questa sicuramente è la via da seguire in un mercato sempre più globalizzato dove è difficile essere competitivi sui prezzi (il costo del lavoro in molti Paesi e decisamente lontano  dagli standard europei). Bisogna spostare il piano del confronto sul prodotto. Per far questo però è necessario che le differenze vengano rimarcate correttamente e non si perdano in un “bazar”, che è appunto il mercato globale, fatto di mille prodotti e di mille lingue. E per far questo c’è bisogno, appunto,  di regole, per tutti, e di chi le faccia  rispettare.

 

di Massimo Coccia