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Paola Gianguzza - Il processo di desertificazione dei fondali rocciosi del Mediterraneo

I fattori che influenzano il funzionamento degli ecosistemi quali i cambiamenti climatici, la disponibilità dei nutrienti e/o di sostanze tossiche, la riduzione delle falde freatiche, la frammentazione dell’habitat, il prelievo indiscriminato di specie e la conseguente perdita di biodiversità, non hanno un andamento temporale costante. In certi ecosistemi i cambiamenti di cui sopra, provocano delle risposte immediate mentre in altri non si registra alcuna reazione fintanto che non venga superato un valore di soglia oltre il quale il sistema risponde in maniera rapida ed imprevedibile. Ciò implica che, per certe condizioni ambientali, l’ecosistema possa avere due o più stati stabili alternativi, separati da un equilibrio instabile che demarca i bordi tra i `bacini di attrazione degli stati (teoria degli stati stabili alternativi di Lewontin (1968). Questa teoria ipotizza anche che i sistemi naturali sono spesso in uno stato alternativo persistente e resiliente: combinazioni alternative degli stati dell’ecosistema e delle condizioni ambientali che possono persistere ad una particolare scala spaziale e temporale. Secondo la teoria di Lewontin, il tempo e l’ampiezza di una perturbazione (naturale o antropica) può spingere la comunità, verso il bacino di attrazione di uno stato alternativo, un nuovo stato stabile, che una volta raggiunto, attraverso una successione divergente, può persistere indefinitamente per più generazioni. Accade perciò che feedback positivi, dovuti ad interazioni tra fattori biotici e abiotici come il pascolo o l’intensità di predazione, la frequenza di incendi, l’inquinamento, le estinzioni locali, le invasioni, il carico di nutrienti etc. possano inibire il ritorno della comunità allo stato precedente.

            Molti studi evidenziano che la specie umana può alterare profondamente lo stato degli ecosistemi marini, influenzando in maniera indiretta le relazioni preda-predatore. Queste interazioni indirette, che prendono il nome di cascate trofiche, possono essere immaginate come una reazione a catena generata dalla rimozione di un predatore apicale, che determina dei cambiamenti a cascata su tutti livelli trofici inferiori. Particolarmente interessanti sono le ripercussioni negative che la rimozione di un predatore apicale può avere sulle comunità algali. La scomparsa della lontra Enhydra lutris, ha generato nelle coste californiane un improvviso aumento del riccio Strongylocentrus franciscanus che ha eroso la foresta a kelp Macrocystis pyrifera. In combinazione con altri fattori, la variazione di intensità del grazing di specie erbivore, modulate dalla perdita di una specie chiave (keystone species) (sensu Paine 1969), può causare uno cambiamento di stato sia in sistemi terrestri che marini. Per esempio nei sistemi marini temperati, l’aumento del pascolo dei ricci può indurre cambiamenti tali da favorire il passaggio da uno stato complesso (alghe erette) ad uno più semplice (alghe coralline) chiamato stato a barren. Questi stati, sono considerati stabili e alternativi (AS) perché altamente resilienti: lo stato “indesiderato” può persistere nonostante la fonte di disturbo, l’elevata densità di ricci, diminuisca.

La formazione dei barren è un fenomeno conosciuto a scala globale, questi deserti sottomarini sono presenti lungo le coste temperate, subtropicali e tropicali, ma i fattori responsabili della loro formazione e mantenimento sono ancora oggetto di studio.

Ad ogni modo, molti lavori supportano l’ipotesi che nelle coste temperate la mancanza di predatori di ricci (pesci del genere Diplodus) possa innescare il processo di formazione del barren. I ricci sono habitat determiners, in quanto, se presenti ad alte densità, possono con il loro pascolo generare e mantenere lo stato di barren. Nelle coste rocciose del Mediterraneo, alte densità di Paracentrotus lividus (Lam.) e Arbacia lixula (L.) possono causare la transizione da macroalghe erette ad alghe coralline. Il risultato finale è la formazione di vaste aree desertiche colonizzate quasi esclusivamente da alghe coralline incrostanti, aree quindi a bassa biodiversità e produttività vegetale.

 Questa condizione può anche avere ripercussioni negative sulla fauna costiera che usa le macroalghe come riparo, rifugio, cibo e substrato utile all'insediamento.

           

Paola Gianguzza

Dipartimento di Ecologia Università degli Studi di Palermo

pgiangu@unipa.it