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Liviana Leita - Massimiliano Valentini - Paolo Sequi - Malattie neurodegenerative nel comparto ittico

Discussioni e polemiche di oltre 20 anni sull’encefalopatia spongiforme trasmissibile (TSE) per la quale non esiste ad oggi terapia: la causa secondo una scuola cui appartenevano anche alcuni fra i migliori studiosi italiani era un virus di minime dimensioni (“virino”), secondo altri era semplicemente la modificazione strutturale di proteine prioniche cellulari nelle corrispondenti isoforme infettive denominati “prioni” (proteinaceus infectious only) da Stanley Ben Prusiner che vinceva il premio Nobel nel 1997.

Oggi sembra che si possano collegare le due scoperte e dimostrare che la trasformazione della normale proteina prionica cellulare, regolarmente codificata da un gene, in una molecola molto simile ma infettiva e capace di trasformare quelle vicine, può alterare l’attività cerebrale di animali e uomini. Che la prima trasformazione a monte dipenda da una mutazione genetica o da qualche virino poco importa da un certo punto di vista: l’infettività della molecola impone gravi vincoli operativi a tutto il comparto agroalimentare dal momento che la trasmissione dell’infettività è sostanzialmente legata alla presenza di prioni nella dieta.

Come si ricorderà, nonostante la presenza di TSE in capi animali e nell’uomo sia stata rivelata qualche decennio fa, il clamore mediatico ha raggiunto i livelli più elevati in occasione dell’insorgenza e diffusione della BSE (Encefalopatia Spongiforme Bovina) in Gran Bretagna prima e poi in Europa.

Oggi, una nuova manifestazione e diffusione negli Stati Uniti ed in Canada di malattie spongiformi trasmissibili che colpiscono i cervidi selvatici (CWD, chronic wasting disease) è fonte di preoccupazione per la sua prevedibile propagazione anche in Europa. Poche specie animali superiori non appaiono indenni dal rischio di insorgenza di TSE.

Il gene per la sintesi della proteina prionica cellulare, prerequisito indispensabile per la conversione nella forma infettiva, è infatti estremamente preservato nei mammiferi ed è nota la suscettibilità di alcune specie di cetacei nei confronti delle infezioni da prioni, dal momento che esiste un discreto grado di omologia di sequenza amminoacidica nella proteina cellulare bovina e cetacea e solo in tempi recenti tale analogia è stata rilevata in altri vertebrati, come uccelli, rettili, anfibi ed in alcune specie di pesci, specie da allevamento fluviale, lacustre e marino.

Se è stato appurato che l’infettività viene trasmessa attraverso la dieta, i risultati di studi internazionali condotti in ambiente terrestre portano a ritenere che la trasmissione possa essere agevolata anche da fattori ambientali che, nel caso del comparto ittico, hanno condizionato il forte mutamento che sta vivendo in questo ultimo decennio il settore della pesca e dell’acquacoltura, quali la comparsa sempre più costante tra i soggetti pescati di nuove specie difficilmente monitorate per la presenza di malattia prionica e normalmente presenti in acque più calde ed il mutamento delle condizioni climatiche globali che ha determinato un rialzo delle temperature medie nel mediterraneo e la conseguente alterazione della qualità ed attività dei sedimenti, possibili bacini di conservazione e rilascio di prioni escreti da capi malati.

 Ed è proprio dalla conoscenza del destino di prioni nel sistema acquatico, dalle dinamiche di legame e rilascio nei sedimenti che potremmo capire l’entità del rischio di contaminazione dell’ambiente, marino in particolare. I più recenti risultati di prestigiose ricerche internazionali condotte in collaborazione con ricercatori italiani hanno messo in luce l’efficienza di alcuni tipi di suoli nella conservazione dell’infettività apportata anche da escrementi di animali infetti e si sta sviluppando un’interessante e promettente linea di ricerca che potrebbe portare a bloccare la propagazione della malattia prionica in ambiente terrestre, grazie ad alcune proprietà di un gruppo di sostanze naturali ed ubiquitarie. Nulla si conosce in merito ad analoghi studi nel sistema acquatico che invece, proprio per alcune peculiarità, potrebbe riservarci sorprendenti risposte volte al contenimento della propagazione delle TSE e non solo nel comparto acquatico.

 

Liviana Leita - Massimiliano Valentini - Paolo Sequi

CRA – Centro di Ricerca per lo studio delle Relazioni fra Pianta e Suolo - Roma